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Emporio digitale: il blog

In Content Marketing/ Marketing/ Social Media Marketing

Odio i post promozionali

E ti spiego il perché ne faccio veramente pochi!

Partiamo da due presupposti: in primis ho studiato marketing, praticamente sono stata forgiata per essere uno di quei mostri che ti deve vendere la qualsiasi; secondo ho iniziato a fare la freelance da pochissimi mesi e sto imparando a navigare in questo nuovo mare.

L’approccio alla vendita aggressiva non mi è mai piaciuto, anche se ho avuto delle brevissime esperienze in cui ho dovuto usare tecniche di marketing diretto e l’ho fatto con discreto successo. (E non parlo di aver fatto semplicemente la commessa).

Ma, andiamo al dunque, i social network (finalmente) vanno di moda! Tutte le attività ambiscono ad essere presenti su queste piattaforme, pretendendone miracoli.

Sembra quasi che siano una bacchetta magica, tanto che spesso insistono nell’abbassare il prezzo del lavoro degli specialisti del settore (Social Media Manager, Copy Writer, etc.), perché in fondo “che ci vuole a pubblicare una foto su Instagram e anche su Facebook? Prendo la stessa cosa e la scopiazzo ovunque.

( Cosa sbagliatissima, ma motivo per cui esistono i cosiddetti cuggini del mestiere che rovinano la reputazione ai veri professionisti.)

Al che la prima cosa più sensata da fare sembra imporre su queste piattaforme un approccio commerciale che non farà altro che declassare i tuoi canali.

Ti svelo un segreto!

Adoperare questo approccio è la cosa più sbagliata che tu possa fare – almeno, lo è a parer mio e di altri professionisti dei social. Questo non farà altro che declassare le tue pagine e i tuoi profili. Anch’io l’ho fatto in passato, quando non avevo né arte né parte, e non ho ottenuto risultati, ho solo sprecato risorse.

Ma arriviamo a noi, perché odio fare post promozionali?

I big del marketing ci dicono che le persone non acquistano prodotti o servizi, ma storie, relazioni e magia. Voi mi chiederete: “Cristiana cosa ci deve essere di poetico e magico nel mio dentifricio?”

In effetti, niente, ma da quando ho scoperto che Colgate allargò il buco del tubetto per salvare l’azienda dal fallimento, io guardo quel dentifricio pensando a tutti gli operai che non persero il lavoro e alle loro famiglie. Ecco, che non penso più al prodotto ma alla storia di queste persone.

Secondo, la natura dei social network non è la vendita. Facebook nasce per mettere in contatto i ragazzi dello stesso campus universitario (social community), Instagram e Tik Tok per intrattenerci con quello che fanno le altre persone, YouTube per farci imparare cose nuove.

Ogni volta che pubblichi un post promozionale – senza aver creato engagement – stai andando contro la natura di quella piattaforma. Se proprio vuoi vendere in maniera diretta metti i tuoi prodotti su Amazon, Ebay o Etsy (ma anche qui ci vuole strategia!)

Qui arriva la parte fondamentale!

Proprio per la natura stessa di ogni piattaforma, l’algoritmo tenderà a declassare il contenuto, cioè a dare meno visibilità, a tutti quei contenuti con parole come “promozione, offerta, sconto, etc” – a meno che non ci metti i cash e fai una sponsorizzata, ma per questo ti consiglio di rivolgerti a un professionista.

Questo si traduce in meno visibilità del tuo brand, in parole tecniche danneggi la brand awareness, e avrai copertura e impression organiche più basse.

Unendo il primo motivo con il secondo, il mio consiglio è sempre quello di concentrarvi all’inizio del vostro approdo sui social sulla fase di conoscenza e sull’engagement. Soprattutto, l’engagement vi permetterà di preparare il vostro utente alla vendita, per cui di procedere alla conversione, e perché no alla brand advocacy.

Significa che fare post promozionali è sbagliato? Ovviamente no!

Fare post promozionali e commerciali non è sbagliato, ma vanno fatti con criterio e con parsimonia.

La super Veronica Gentili, Facebook Certified Media Buying Professional – tra le migliori in Italia, consiglia una soglia di post promozionali che non superi il 20% dei contenuti del tuo piano editoriale mensile. Io ero d’accordo con lei ancor prima di sentirlo nei suoi corsi.

Secondo, studia bene il tuo target, assicurati che i tuoi follower o fan siano in linea con il tuo acquirente; studia bene il tuo prodotto: richiede più o meno impegno all’acquisto? A quale bisogno del tuo potenziale cliente risponde?

Infine, focalizzati sempre sui tuoi utenti, dietro lo schermo ci sono persone e vanno trattate come tali. Valorizza la loro umanità, così valorizzerai la tua e senza che loro se ne qualcuno ci faccia troppo caso venderai la tua storia, non i tuoi prodotti.

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In Donne/ Emporio digitale: il blog/ Sud

L’8 Marzo, un giorno per ipocriti, o ipocrit*!

Come ogni 8 marzo passeremo la giornata a fare scroll di articoli sul divario di genere, il gender gap, il valore del gender diversity. Da questa lista di articoli non escludo il mio.

Oggi daremo un po’ più di attenzione all’argomento, come facciamo ogni anno – donne comprese-, e mostreremo le solite cifre. Il problema è proprio questo, che sono sempre le solite cifre o con variazioni minime o discutibili.

Se avete percepito un tono di voce risentito e arrabbiato, avete intuito bene.

Per questo, oggi prendo ispirazione dal mio lavoro di tesi per riflettere sull’argomento e su quanto è stato effettivamente fatto per migliorare la vita delle donne in questo paese. Perdonatemi, i dati che leggerete sono quelli del 2021.

Iniziando dal Global Gender Gap Report 2021, l’Italia si classifica al 63° posto con un miglioramento generale di 13 punti rispetto al 2020. Ma secondo il report la parità di genere nel nostro paese è stata raggiunta solo al 72,10% contro il valore del resto dell’Europa Occidentale del 77,6%. Inoltre, (aggiungerei: casualmente) gli indici in cui performiamo peggio sono la partecipazione economica e opportunità con il 60,9% e partecipazione politica con il 31,3%.

La condizione delle donne italiane peggiora notevolmente andando verso Sud, infatti, secondo il Rapporto dello SVIMEZ 2020 le giovani donne del Sud Italia sono le cittadine europee più svantaggiate d’Europa in termini di diritti e condizioni occupazionali. Nel 2021 lo SVIMEZ ha registrato un tasso di occupazione femminile pari al 35,1% per il Mezzogiorno contro il 62,0% del Centro-Nord. (Ma tutto questo non mi sorprende, la mia analisi è molto chiara. All’Italia importa ben poco delle donne, importa ancora meno del Sud, per cui unendo le cose: non gli importa niente delle donne del Sud).

Nonostante ciò, pare che le donne italiane, soprattutto quelle del Sud, abbiano capito che debbano cavarsela da sole. L’imprenditoria femminile, escludendo il margine negativo dovuto al Covid-19, è un capitale che viaggia lungo tutta la penisola e che vede sempre più donne del Mezzogiorno fare impresa al Centro-Nord. Tuttavia, si presenta come una realtà molto attiva anche in molte regioni del Sud Italia come Molise, Basilicata e Abruzzo. Seppur più sfavorita al Sud in molti settori, questa è prevalente nel Meridione in rapporto alle imprese maschili. (Unioncamere)

Come dice il proverbio: “Aiutati, che Dio ti aiuta”.

Se volessimo ricercare le ragioni di questi dati nei pregiudizi, ci accorgeremmo che questi – al contrario, di quanto si possa pensare – non fanno distinzione di genere né territoriale. Questo significa che in un campione, preso a caso tra i 18-74 anni di uomini e donne in tutta Italia, troverai delle donne che tollererebbero la violenza sulle donne. In altri casi, non importa il territorio, dato che le donne lucane accetterebbero la cosa meno delle donne lombarde, venete o emiliane. (Istat)

Potrei continuare ad elencare i dati. Ma voglio arrivare al punto della questione.

Ma il gender gap, che si traduce nel gender pay gap a chi conviene? A nessuno!

Nemmeno al datore di lavoro che licenzia la sua dipendente in dolce attesa o che paga le sue stagiste meno dei suoi stagisti.

Vi riporto un ragionamento semplice, ma esaustivo – che altro non è che l’introduzione della mia tesi.

Partendo dal gender pay gap e seguendo i principi base dell’economia reale, sappiamo che maggiore è il reddito pro-capite dei cittadini, maggiore sarà il potere d’acquisto, maggiormente saranno incentivati i consumi. Incentivare i consumi, favorisce un benessere economico per tutti i cittadini, uomini e donne di qualsiasi età. Nel momento in cui un’azienda paga una donna meno di un uomo ne limita il suo potere d’acquisto, di conseguenza limita i suoi consumi, che nel complesso della popolazione si riflettono sul benessere economico complessivo.

Se ancora il ragionamento non è stato convincente, basta mettersi nei panni dell’azienda di prodotti di consumo che quella donna, pagata meno dell’uomo, vorrebbe acquistare. Se ci fossero migliaia e migliaia di donne che vorrebbero acquistare quei prodotti, soprattutto quelli durevoli, e potessero; le performance di vendita della nostra Azienda, che chiamiamo Beta, migliorerebbero sensibilmente. Dunque, diventa lecito chiedersi quanto fatturato l’azienda Beta stia perdendo? Secondo, e se l’azienda Beta fosse quella che in questo momento sta pagando meno le sue dipendenti e le sue manager rispetto ai colleghi uomini? Nel caso in cui lo fosse, sta solo incentivando un meccanismo a danno non solo dell’azienda stessa, ma a danno di tutti i suoi dipendenti: uomini e donne, stagisti e dirigenti, impiegati e cittadini.

Adesso è più chiaro che è una questione personale di tutti?

Cristiana Tommasi

Dottoressa Magistrale in Marketing e Comunicazione d’Impresa

Freelance e Aspirante Imprenditrice